La morte di Piermario Morosini, colto di infarto durante la partita Pescara-Livorno, rattrista e indigna. Rattrista perché capita a due giorni dalla scomparsa del giovane Mirko Fersini a seguito di un incidente stradale, dopo il trapianto al fegato di Eric Abidal (colpito da un tumore epatico un anno fa), dopo la notizia della leucemia del capitano dell’Aston Villa, Stiliyan Petrov e la vicenda (conclusasi con un miracolo) del malore di Fabrice Muamba, centrocampista del Bolton, il cui cuore si era fermato per 78 minuti. Indigna perché, a parte Fersini, nessuno di questi giocatori avrebbe dovuto avere le malattie che hanno avuto. La medicina insegna. Tra i 20 e i 35 anni il fisico umano raggiunge il massimo delle sue potenzialità e delle prestazioni. Gli infarti e i tumori (dati alla mano) sono mali dell’invecchiamento cellulare, che possono manifestarsi quando il nostro organismo comincia ad avere delle defiance dovute all’età. E gli unici casi di persone giovani colpite derivano da malformazioni fisiche o genetiche congenite, dal contatto con ambienti insalubri o da uno stile di vita sbagliato. Chi pratica sport professionistico è sottoposto a frequenti controlli medici e segue una dieta povera di grassi e ricca di frutta, verdura e carboidrati. Passa le giornate all’aria aperta, ad allenarsi. Vive seguendo orari giusti (si sveglia e va a dormire presto). Pratiche che, secondo i medici, garantiscono salute fisica e forza. Per cui nessuno mi può togliere dalla testa che dietro queste morti e malattie possa esserci l’ombra del doping. Il nostro fisico vive di equilibri e soprattutto ha dei limiti. Un allenamento costante ed una dieta equilibrata aiutano a migliorare le prestazioni. Tuttavia c’è un margine che la natura c’impone non possa essere superato. Posso correre ogni giorno, ma non farò mai i 100 mt come Bolt. Ma se lo sport professionistico diventa business, migliorare le prestazioni degli atleti diviene una tentazione quasi irresistibile. E se immettiamo nel nostro serbatoio una benzina troppo potente, anche il cuore diventa debole e le cellule non riescono più ad eliminare le tossine. Sia chiaro non parlo solo di doping in senso stretto. Ma anche di farmaci che vengono somministrati quando non dovrebbero. Se c’imbottiamo di antidolorifici non avvertiremo il dolore dello sforzo, ma che ne sarà dei nostri muscoli? Madre Natura ci ha dotato di sistemi che ci fanno rendere conto subito quando il nostro fisico è arrivato al limite. Cosa succede se riusciamo ad eluderli ed il cervello non coglie i segni della stanchezza? Succede che ci infortuneremo più spesso e tutto il nostro equilibrio biologico sarà portato allo stress. La storia del calcio è piena di eventi misteriosi. Il più noto è quello della Fiorentina ’70-76. Sei dei calciatori di quella squadra morirono prematuramente tra il 1987 ed il 2009. L’ultimo, Nello Saltutti (scomparso il 12 ottobre 2009) così raccontava all’Avvenire. “Ci riempivano di Micoren, un farmaco che tanto bene non faceva visto che nel 1985 l’hanno tolto dal commercio Prima della partita c’era sempre un “caffè speciale” che non si sapeva di cosa fosse fatto, ma in campo ci faceva andare il doppio degli altri. Sul tavolino fuori dello spogliatoio trovavamo sempre i flaconi delle pillole, le boccette con le gocce, flebo modello damigiane e punture a volontà…” Senza dimenticare Andrea Fortunato, morto di leucemia nel 1995, terzino di una Juve che nel 1999 fu processata per doping a seguito delle dichiarazioni incendiare di Zdenek Zeman (uno che agli integratori preferiva ceste di frutta e acqua gelata). “Il calcio deve uscire dalle farmacie e dagli uffici finanziari. Rimango sorpreso della crescita muscolare di giocatori come Vialli e Del Piero” disse il boemo. Storie che fanno male agli sportivi. Come quelle di Morosini, Abidal, Petrov e Muamba (senza dimenticare Antonio Jose Puerta, morto d’infarto nel 2007 durante una partita del Sevilla). Come fanno ancora male le immagini di Fabio Cannavaro, colto da un video amatoriale prima della finale di Coppa Uefa del 12 maggio 1999 tra Parma e Olimpique Marsiglia con un flebo ficcata nel braccio. Uomo simbolo del mondiale vinto dagli azzurri nel 2006. Uomo simbolo di come la vita, a volte, possa valere meno del successo.

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