lunedì 8 ottobre 2012

SPARISCA DDR16, RIDATECI DE ROSSI


Ridatemi il De Rossi 18enne che esordiva facendo sentire i tacchetti agli avversari.

Ridatemi il De Rossi che volava in campo e sembrava due giocatori insieme.

Ridatemi il De Rossi con la boccia e l’orecchino, fiero ragazzo di Ostia, ultras in campo.

Ridatemi il De Rossi che, al quinto minuto del primo tempo, stende Cassano, ritornato a Roma da avversario.

Ridatemi il De Rossi che baciava la maglia dopo un gol fino a strapparla, correndo con la giugulare gonfia e la faccia paonazza.

Ridatemi il De Rossi massacrato dalla stampa perché romano dopo la gomitata a McBride ai mondiali del 2006.

Ridatemi il De Rossi che scarica la rabbia con un calcio di rigore sotto la traversa, in finale contro la Francia.

Ridatemi il De Rossi che mette al bando l’ipocrisia e dice chiaro e tondo che il campionato 2007-2008 avrebbe dovuto vincerlo la Roma e non l’Inter.

Ridatemi il De Rossi ribelle che dice: “più che la tessera del tifoso, servirebbe quella del poliziotto”.

Ridatemi il De Rossi che si arrampica sul vetro della Sud dopo un derby vinto.

Ridatemi il De Rossi che spara siluri da fuori area e terminano sotto l’incrocio.

Ridatemi il De Rossi calato nella sua città, innamorato dei colori, che si mette sempre al servizio della squadra.

Ridatemi il De Rossi vero, non questa immagine sbiadita di una gloria andata, ridatelo a me, a noi e a Zeman e vedrete che lo farà giocare.

giovedì 13 settembre 2012

L’ABETE SU CUI VUOL SBATTERE ZEMAN


di Luca La Mantia
 
Viva Zeman e la faccia come il culo di chi dice quello che pensa. Abbasso l’ipocrisia celata dietro il rigor institutionis (che puzza di mortis) e il politically correct. Il calcio è una fogna otturata e Abete uno stagnaro inetto, che invece di sturarla aspetta che trabocchi. C’era bisogno del boemo per saperlo? No di sicuro. Ma, si sa, in Italia l’ovvietà diventa motivo di discussione, se a prendersela in quel posto è per una volta chi sta sui piani alti, del pallone come della politica. Sento di opinionisti e tifosi con le mani nei capelli per paura di possibili sanzioni. Ma allora siete voi, in omaggio alla legge delle tre scimmiotte (non vedo, non sento, non parlo), che certificate in carta bollata l’esistenza di un sistema mafioso, interdetto alla libertà di pensiero. Ma cosa avrà mai detto Zeman? Che Abete è nemico del calcio? Non ci vedo niente di male nell’esercitare il proprio diritto a chiedere un cambio ai vertici della Figc. Del resto chi è questo signor Abete? Eletto tre volte deputato con la Dc tra il 1979 e il 1992. Fratello di quel Luigi Abete ex presidente della Confindustria e ora a capo della Bnl. Insomma il classico pezzo vecchio d’Italia vecchissima propinato sino alla nausea e al vomito. Uno di quei personaggi che, come la metti la metti, devono per forza stare a capo di qualcosa. Vicepresidente della Figc sotto l’ex socialista e sindaco di Roma Carraro (anche lui noto collezionista di poltrone) lo ha sostituito ai vertici della federcalcio, dopo che si era dovuto dimettere perché finito in mezzo alle intercettazioni di calciopoli. Negli ultimi mesi, nonostante il cognome, qualcuno ha provato a smuoverlo l’Abete. La Juventus, per bocca del presidente Andrea Agnelli, ha detto di non riconoscere il conteggio degli scudetti ufficiale della Figc e si è tolta dalla maglia le due stelle dei 20 titoli, per protestare contro le revoche del 2006. Presa di posizione grave per un tesserato. Ma Abete Luigi non ha fatto niente. Nessun provvedimento ufficiale. Forse perché gli era esploso tra le mani un nuovo scandalo: scommessopoli. Dimissioni? Macché figuriamoci. E facciamo finta di credere che il presidente federale non abbia nessun obbligo di vigilanza. Però Abete Luigi una volta ha risposto. A Zeman, pensate un po’. Chiedeva il boemo che un allenatore squalificato non potesse allenare. Cosa illogica pensare che le pene sportive debbano avere una forza deterrente superiore a quella attuale…”Zeman sbaglia..Chi non è interessato dovrebbe tacere” disse Abete. E alla Juve che attaccava pesantemente Palazzi per il deferimento di Conte? Nulla. Per cui di cosa vi stupite se qualcuno dice che quest’uomo non merita di stare dov’è.. A maggior conferma chiediamo che Abete deferisca Zeman e lo squalifichi.. Il boemo non aspetta altro..Per avere ragione.

sabato 14 luglio 2012

A ROMA DI ATAC SI PUO’ MORIRE


ASPETTA E SPERA CHE PRIMA O POI IL BUS PASSA..
di Luca La Mantia

“Nun dovete chiamà i call center. Dovete pijà a tortorate l’assessori”. Parola di autista Atac. La storia non è una notizia, ma un esempio di vita vissuta nella periferia di Roma. Accade che in una calda mattinata di Luglio, un bus della linea 69 (direzione Piazzale Clodio)ci metta un’ora e un quarto a passare per la fermata Prati Fiscali-Salaria. Sotto la pensilina, piazzata a un passo dal curvone di immissione alla Salaria, ci sono una coppia di ragazzi, due stranieri ed un signora di 75 anni che si è appena fatta “55 minuti di pullman da Osteria Nuova” e si sente male per il clima bollente. Una situazione paradossale, quasi da anni ’80, quando Roma d’estate diventava un deserto e restarci era quasi rischioso. 

Oggi non dovrebbe essere così. Ma come al solito c’è una città ideale ed un reale. E la realtà è che da un paio di mesi i romani pagano il biglietto del bus 1,50 euro. Perché in Italia i dissesti della pubblica amministrazione non si risolvono cacciando i dipendenti inetti, promuovendo il merito e garantendo il rispetto delle regole, ma aumentando il costo dei servizi, meglio dei disservizi. Così a Roma il bus costa quanto a Milano, dove i mezzi passano di media ogni cinque minuti ed il call center dell’Atm (l’azienda dei trasporti milanesi) sa informarti su ritardi e tempi di percorrenza. E nemmeno il sollievo di vedere che finalmente anche l’Atac si è dotata di un applicazione per smartphone riesce a regalarti un sorriso. Perché Romabus (così si chiama) è più umorale di un adolescente. Un giorno funziona, l’altro no. Dovrebbe dirti quanto manca all’arrivo della prossima vettura. Ma, sarà il clima feriale, anche lei sembra essersene andata al mare e appena ti connetti per avere notizie sulla tua linea ti dice “Non è stato possibile avere informazioni sulla linea indicata”. 

E il tempo passa. Una, due, tre, quattro sigarette e da quel curvone nessuna buona notizia. La coppia comincia a protestare, gli stranieri si chiedono se davvero questa è stata la culla dell’umanità, la signora si preoccupa per la sua salute e rievoca ricordi in camicia nera, quando “La notte si dormiva con la porta aperta e i bus erano puntuali”. Che fare? Un ragazzo chiama il call center del Comune e si fa passare l’Atac. Dall’altra parte risponde un pischello, probabilmente sottopagato, col quale finisci con l’incazzarti perché non sa nemmeno lui quando passerà questo dannato 69 e non può “assolutamente contattare il capolinea”. Una ragazza chiama il 113, che la invita a presentare denuncia. E’ la classica frase che ti scoraggia. Se pensi ci sia un Pm che apra un’inchiesta sul ritardo del 69 per “Interruzione di pubblico servizio” stai fresco. 

Poi, come un miraggio, compare la sagoma del 69. Sono le 12.45. Il “mortacci tua” con tanto di gesto è corale. La signora, stanca ma salva, si scaglia contro l’autista. L’uomo risponde “che dovevamo fa, c’abbiamo 4 vetture rotte e questa la sto portando a 40 all’ora perché c’ha er radiatore in ebollizione” e poi l’invito a prendere a tortorate gli assessori. Che nel caso specifico non sono tanti, ma è uno solo: Antonello Aurigemma. Ma che condivide un’atavica incapacità con tutti i suoi predecessori di ogni colore. Perché a Roma il problema è vecchio come il cucco. Vecchio come la mala gestione delle aziende municipalizzate, cui la politica si è attaccata come un vampiro, succhiando tutto il succhiabile. Lasciando casse vuote e mezzi che in inverno non hanno catene e d’estate fondono. 

lunedì 7 maggio 2012

QUEGLI ELOGI A LUIS ENRIQUE

FORSE CI SIAMO SBAGLIATI NOI...

E vabe saremo ignoranti noi. Se giocatori, tecnici, eminenti opinionisti, staff societario e colleghi di ogni latitudine, spendono parole e inchiostro per elogiare il lavoro svolto da Luis Enrique alla Roma, chiedendone la riconferma, noi detrattori dobbiamo cominciare a pensare di esserci sbagliati. Certo restano dei dati drammatici. C’è un eliminazione al primo turno dall’Europa League, un settimo-ottavo posto in classifica che ci costa l’Europa dopo quindici anni, una brutta figura in Coppa Italia contro la Juve, due derby persi, disfatte con Juventus, Atalanta, Fiorentina, Lecce, Siena, Cagliari e Genoa, 14 sconfitte in campionato, , 52 gol subiti e solo 57 fatti. 

Senza dimenticare il gioco. Se molti dicono di aver visto sprazzi di Roma spettacolo, a sbagliare siamo senz’altro noi, a cui questa squadra non piace, anzi fa schifo. Forse non ci capiamo niente di calcio, ma di basi, di fondamenti per realizzare qualcosa di grande non ne vediamo nemmeno l’ombra. Quando Sabatini dice che “quanto costruito da Luis Enrique non va sprecato”, a prescindere da quale sarà l’allenatore, una domanda s’insinua tra i pensieri. “Cosa ha costruito?”. Ma forse siamo in incapaci a fare il nostro mestiere e allora, mestamente, tacciamo. Ci cospargiamo il capo di cenere e col fiato sospeso aspettiamo che il vate Enrique sciolga le riserve e decida se onorarci ancora della sua presenza. Anzi chiediamo perdono se abbiamo reso difficile il suo anno, se, per caso e senza potercelo permettere, ci siamo illusi che questo progetto potesse rappresentare la svolta. Se abbiamo chiesto di vincere, facciamo ammenda. 

Ci permettiamo una sola, piccola, annotazione. Se Luis Enrique è davvero il fenomeno di cui parlano Baldini, Sabatini, i calciatori e buona parte della stampa romana, allora merita la riconferma. Ma attenzione. Se i risultati non verranno, il gioco nemmeno, proseguiranno le umiliazioni e alla fine della stagione si dovrà, questa volta con un ‘altro tecnico, ripartire da zero, non ci limiteremo a chieder la testa dell’hombre vertical, del cui fallimento vi sarete, a quel punto, resi complici e correi. Stavolta la colpa sarà solo vostra. E saranno cazzi amari.

sabato 14 aprile 2012

L’OMBRA DEL DOPING NEL CALCIO

DOPO LA TRAGICA MORTE DI MOROSINI CHIEDIAMOCI: SONO SOLO DEI CASI?


La morte di Piermario Morosini, colto di infarto durante la partita Pescara-Livorno, rattrista e indigna. Rattrista perché capita a due giorni dalla scomparsa del giovane Mirko Fersini a seguito di un incidente stradale, dopo il trapianto al fegato di Eric Abidal (colpito da un tumore epatico un anno fa), dopo la notizia della leucemia del capitano dell’Aston Villa, Stiliyan Petrov e la vicenda (conclusasi con un miracolo) del malore di Fabrice Muamba, centrocampista del Bolton, il cui cuore si era fermato per 78 minuti. Indigna perché, a parte Fersini, nessuno di questi giocatori avrebbe dovuto avere le malattie che hanno avuto. La medicina insegna. Tra i 20 e i 35 anni il fisico umano raggiunge il massimo delle sue potenzialità e delle prestazioni. Gli infarti e i tumori (dati alla mano) sono mali dell’invecchiamento cellulare, che possono manifestarsi quando il nostro organismo comincia ad avere delle defiance dovute all’età. E gli unici casi di persone giovani colpite derivano da malformazioni fisiche o genetiche congenite, dal contatto con ambienti insalubri o da uno stile di vita sbagliato. Chi pratica sport professionistico è sottoposto a frequenti controlli medici e segue una dieta povera di grassi e ricca di frutta, verdura e carboidrati. Passa le giornate all’aria aperta, ad allenarsi. Vive seguendo orari giusti (si sveglia e va a dormire presto). Pratiche che, secondo i medici, garantiscono salute fisica e forza. Per cui nessuno mi può togliere dalla testa che dietro queste morti e malattie possa esserci l’ombra del doping. Il nostro fisico vive di equilibri e soprattutto ha dei limiti. Un allenamento costante ed una dieta equilibrata aiutano a migliorare le prestazioni. Tuttavia c’è un margine che la natura c’impone non possa essere superato. Posso correre ogni giorno, ma non farò mai i 100 mt come Bolt. Ma se lo sport professionistico diventa business, migliorare le prestazioni degli atleti diviene una tentazione quasi irresistibile. E se immettiamo nel nostro serbatoio una benzina troppo potente, anche il cuore diventa debole e le cellule non riescono più ad eliminare le tossine. Sia chiaro non parlo solo di doping in senso stretto. Ma anche di farmaci che vengono somministrati quando non dovrebbero. Se c’imbottiamo di antidolorifici non avvertiremo il dolore dello sforzo, ma che ne sarà dei nostri muscoli? Madre Natura ci ha dotato di sistemi che ci fanno rendere conto subito quando il nostro fisico è arrivato al limite. Cosa succede se riusciamo ad eluderli ed il cervello non coglie i segni della stanchezza? Succede che ci infortuneremo più spesso e tutto il nostro equilibrio biologico sarà portato allo stress. La storia del calcio è piena di eventi misteriosi. Il più noto è quello della Fiorentina ’70-76. Sei dei calciatori di quella squadra morirono prematuramente tra il 1987 ed il 2009. L’ultimo, Nello Saltutti (scomparso il 12 ottobre 2009) così raccontava all’Avvenire. “Ci riempivano di Micoren, un farmaco che tanto bene non faceva visto che nel 1985 l’hanno tolto dal commercio Prima della partita c’era sempre un “caffè speciale” che non si sapeva di cosa fosse fatto, ma in campo ci faceva andare il doppio degli altri. Sul tavolino fuori dello spogliatoio trovavamo sempre i flaconi delle pillole, le boccette con le gocce, flebo modello damigiane e punture a volontà…” Senza dimenticare Andrea Fortunato, morto di leucemia nel 1995, terzino di una Juve che nel 1999 fu processata per doping a seguito delle dichiarazioni incendiare di Zdenek Zeman (uno che agli integratori preferiva ceste di frutta e acqua gelata). “Il calcio deve uscire dalle farmacie e dagli uffici finanziari. Rimango sorpreso della crescita muscolare di giocatori come Vialli e Del Piero” disse il boemo. Storie che fanno male agli sportivi. Come quelle di Morosini, Abidal, Petrov e Muamba (senza dimenticare Antonio Jose Puerta, morto d’infarto nel 2007 durante una partita del Sevilla). Come fanno ancora male le immagini di Fabio Cannavaro, colto da un video amatoriale prima della finale di Coppa Uefa del 12 maggio 1999 tra Parma e Olimpique Marsiglia con un flebo ficcata nel braccio. Uomo simbolo del mondiale vinto dagli azzurri nel 2006. Uomo simbolo di come la vita, a volte, possa valere meno del successo.

mercoledì 11 aprile 2012

IL PD HA SGRAVATO


MANIFESTI CON LE FOTO DI BIMBI MALATI. NON C’E’ LIMITE ALL’INDECENZA

 Quando si sgrava si sgrava. E il gruppo regionale Pd Lazio ha sgravato alla grande. Per chi ci legge da fuori, sgravare è un termine dello slang romano che significa “esagerare oltre ogni limite”. Ed è l’unico utilizzabile per commentare i manifesti osceni con i quali il partito di Bersani sta tappezzando Roma. Oggetto: le fallimentari (secondo loro) politiche sociali della giunta Polverini. E come si fanno propaganda questi signori? Mostrando, tra le altre, la foto di un bambino malato sul letto d’ospedale con allegato il virgolettato dei genitori (nella migliore delle ipotesi giunto via mail al gruppo democratico regionale, nella peggiore inventato di sana pianta). Osceno. In un momento in cui la politica perde sempre più credibilità agli occhi degli italiani sarebbe consigliabile maggiore decenza. Cosa dobbiamo aspettarci ancora? La misura era già colma. Con l’avvento della seconda Repubblica i muri delle nostre città sono stati presi d’assalto dagli attacchini dei partiti. La campagna elettorale, da 18 anni a questa parte, si fa 365 giorni l’anno. Facce di bronzo e sorrisi di plastica ci dicono cosa fare. Frasi a effetto e battute ridicole mettono sulla pubblica piazza errori, gaffe e lacune degli avversari. Roba che nemmeno i bambini alle elementari. “Maestra il Pdl ha fatto questo”, “maestra il pd ha fatto quest’altro”. Il tutto, ovviamente, con soldi pubblici. Bassezze come queste hanno spinto gli italiani a consegnarsi mani e piedi alla tecnocrazia. E giù tasse. Ma cosa dovevamo fare? Con una classe politica che fa dell’indecenza e della volgarità il proprio cavallo di battaglia meglio il baratro. E i professori se la ridono.

sabato 31 marzo 2012

QUAL'E' LA LINGUA MIGLIORE PER TWITTER

L’Economist ha pubblicato un grafico in cui mette a confronto il numero di caratteri con cui diverse lingue esprimono lo stesso concetto: per farlo ha confrontato il numero di caratteri con cui viene tradotto un testo in inglese di mille caratteri, spazi inclusi. Come si vede chiaramente, le lingue meno dispendiose sono il cinese e l’arabo che, rispetto all’inglese, risparmiano rispettivamente il 69 per cento e il 14 per cento di spazio per scrivere lo stesso testo. L’inglese dimostra di essere in buona posizione anche grazie alla sua grande varietà lessicale, che permette ai suoi parlanti di riassumere concetti piuttosto elaborati in poche parole. Più “dispendiose” dell’inglese, tra le principali lingue del mondo, sono l’urdu, il russo e l’indonesiano. Il tedesco, nonostante la sua complessità lessicale e morfologica, in realtà non si attesta tra le lingue più prolisse e occupa “solo” il 28 per cento di spazio in più rispetto a un testo inglese di mille battute. Come si vede dal grafico, invece, ai primi posti ci sono due lingue che discendono dal latino, ossia lo spagnolo, al primo posto con il 39 per cento in più, e l’italiano, al terzo posto con il 30 per cento. Tra loro c’è l’ungherese, una lingua ugro-finnica, con un aumento dei caratteri del 35 per cento. Tutto questo, scrive l’Economist, ha ovviamente un’influenza anche su Twitter, il sito di microblogging la cui caratteristica principale è proprio la brevità essenziale e dove l’inglese, dopo le rivolte arabe degli ultimi mesi, sta perdendo sempre di più influenza ed è parlato “solo” dal 39 per cento dei suoi utenti. In Cina viene utilizzato un altro servizio di microblogging, Sina Weibo, che è autorizzato, con molti controlli e censure, dalle autorità locali. L’Economist dice che grazie alla loro lingua, gran parte dei cinesi non raggiunge mai il limite dei 140 caratteri permessi da Sina Weibo. Anche il coreano è una lingua molto sintetica, anche se spesso i coreani che twittano ometttono alcune sillabe per risparmiare spazio, così come i parlanti di lingue romanze molto verbose come spagnolo e italiano abbreviano molti termini.
Come scrive l’Economist, Twitter, oltre a favorire la maggiore sinteticità delle lingue di oggi, è anche di grande aiuto per quelle con sempre meno parlanti o a rischio di estinzione. Molti parlanti del basco e del gaelico, per esempio, usano Twitter per parlare tra loro. Kevin Scannell, professore alla St Louis University in Missouri (Stati Uniti), ha trovato circa 500 lingue diverse che oggi vengono parlate su Twitter. Tra queste c’è anche il kamilaroi, una particolare lingua degli aborigeni australiani, che oggi viene parlata, sembra, solo da 3 persone. Una di queste tre è su Twitter.
(da Il Post)

lunedì 27 febbraio 2012

Una cura riCostituente per l'Italia

In Italia la madre di tutti i problemi si chiama Costituzione. Non dobbiamo avere paura di dirlo. La nostra carta fondamentale, con il suo sottile sistema di equilibri e bilanciamento di poteri, nacque con un fine preciso: evitare  il rischio di un ritorno alla dittatura(si era nel 47-48). L'intento non va ricercato tanto nei lavori preparatori, quanto nella lettura stessa del testo e nella struttura. Tra tutte le Costituzioni dei paesi occidentali quella italiana è una delle più lunghe ed una delle poche che non si limita ad enunciare i principi fondamentali dell'ordinamento, ma entra nel merito di alcune questioni, lasciando alle leggi ordinarie pochissimo spazio di azione,  reso ancora più angusto dal rischio d'incorrere nella mannaia della corte costituzionale.Evidente il paradosso di fondo:proprio la carta che ha messo il parlamento al centro del sistema repubblicano, risucchiando prerogative al governo, ne ha sin da subito, con la sua presenza, ridotto il raggio d'azione. Senza entrare nel dettaglio tecnico, si possono ipotizzare dei progetti di riforma che mutino il nostro assetto costituzionale, salvaguardando solo principi fondamentali e diritti e doveri dei cittadini. Il parlamento deve mantenere la sua funzione di organo centrale, ma maggiori prerogative dovrà avere il governo. Il presidente del Consiglio dovrebbe acquisire il ruolo di un vero e proprio primo ministro, con possibilità di nominare i ministri, dichiarare la crisi di governo e avere maggiori poteri. Fondamentale semplificare il sistema legislativo. Una sola camera che fa le leggi ed un senato organo di controllo, con potere di chiedere, per determinate questioni, un esame congiunto. Queste le tematiche più impellenti. Poi toccherebbe a giustizia e sistema fiscale. Ma su questo torneremo un'altra volta. L'obbiettivo finale sarà ottenere uno stato più veloce ed efficiente, dedito al cittadino più che alla partitocrazia, che la costituzione vigente ha costituito a consacrare.